Colliri visionari

  • di Giorgio Samorini
 
Pubblicato originalmente su Eleusis, n. 5, pp. 27-32, 1996

In diverse regioni dell'Africa nera, internamente a riti magico-terapeutici e religiosi, viene praticato un curioso modo di somministrazione dei medicinali e delle "sostanze magiche": nel paziente o nell'iniziando esse sono applicate sugli occhi, a mo' di collirio.

Uno dei casi maggiormente documentati riguarda l'ebama (o ibama), impiegato durante i riti d'iniziazione del Buiti, il culto religioso imperniato sull'assunzione della pianta visionaria iboga e diffuso nel Gabon e nei paesi limitrofi (Samorini 1995).

Nel corso del rito iniziatico, il neofita deve assumere un'enorme quantità di radice polverizzata di iboga, sino al punto di perdere conoscenza e con lo scopo di ottenere una visione dai contenuti di carattere rivelatorio e spirituale-religioso. Quando l'iniziando si risveglia dallo stato di coma (uno stato che può durare alcune notti e giorni consecutivi), i kombo - gli officianti buitisti - lo invitano a colloquio, durante il quale egli è tenuto a riferire ciò che ha visto nel corso del suo "viaggio nell'al di la". Se i kombo ritengono ch'egli ha "ben visto", lo proclamano bandzi, cioè iniziato.

Raponda-Walker e Sillans (1962: 204) riportano che, presso i Fang del Gabon, l'applicazione rituale del collirio ibama avviene subito dopo questo colloquio. L'ibama viene versato goccia a goccia negli occhi del nuovo iniziato e il suo effetto subitaneo è quello di produrre una forte sensazione di bruciore.

Durante questa instillazione l'iniziando è obbligato a guardare il sole. I buitisti affermano che questo topico ha per effetto quello di "far scoprire ai nuovi iniziati i segreti dell'altro mondo nascosti ai comuni mortali".

Stanisla Swiderski, studioso della religione Buiti Fang, egli medesimo iniziato nella setta Dissumba, aggiunge che l'ébama (plurale dibama) è utilizzato per aumentare le capacità visive, uditive e cognitive dei candidati. Il liquido viene versato nell'occhio del neo-iniziato mediante un imbuto costituito da una foglia arrotolata della pianta abomenzan (Piper umbellatum L., Piperaceae, cf. Raponda-Walker & Sillans 1961) e facendo contemporaneamente schioccare sotto la sua testa un'altra foglia della medesima pianta "per aprire il suo nuovo pensiero e per permettere l'entrata del suo nuovo spirito". Così "immunizzato", si ritiene che l'iniziato debba essere quindi in grado di fissare il sole, "per dare la prova ch'egli è oramai in grado di guardare in faccia la verità senza temerne la sua forza" (Swiderski 1990, V: 83).

La pratica del collirio è presente anche presso le comunità dell'Ombwiri, il rito terapeutico gabonese che pure ricorre all'iboga come agente psicodiagnostico. In questo caso, l'applicazione del collirio provoca generalmente una visione: "Fissando il sole, i malati vedono dei cerchi, delle bolle di colore blu. Di frequente vedono una porta circolare e, in uno spazio infinito, intravedono degli uomini vestiti di bianco, con dei cappelli di rafia e una lancia in mano. Questa visione è una delle tappe importanti del loro cammino verso la guarigione, ottenuta attraverso l'esperienza spirituale dell'incontro con gli spiriti" (Swiderski 1972: 186). In questo rito l'applicazione del collirio precede il consumo dell'iboga.

La sensazione di bruciore indotto da questo collirio è devastante e l'iniziato avrà gli occhi rossi per diversi giorni. Per via di questo forte e improvviso dolore, il collirio è anche chiamato ebama ngadi, "ebama di fulmine".

Il rito buitista dell'applicazione dell'ebama ha subito un'evoluzione (o forse un'involuzione) internamente all'iniziazione buitista. La sua esecuzione al termine del ciclo iniziatico potrebbe essere un'introduzione recente. Presso alcune sette, questo rito si pratica prima dell'esperienza della visione ottenuta con l'iboga e in questi casi avrebbe lo scopo di facilitare la visione iniziatica. Ad esempio, presso i Mitsogho del Gabon centrale il collirio viene applicato ai neofiti subito l'assunzione dell'iboga. In questo caso esso è ricavato dal fusto di mokusa, identificato come Costus lucanusianus J. Braum & K. Schum. (Zingiberaceae) (Gollnhofer & Sillans 1979: 745). Come ha fatto notare André Mary (1983: 239-40), l'applicazione del collirio dopo la visione dell'iboga ha oramai assunto la connotazione di una semplice prova fisica, durante la quale l'iniziato deve riuscire a ottenere la visione di un fulmine, il più delle volte seguito dall'avvicinamento al suo viso di una candela accesa.

Sfortunatamente, o meglio fortunatamente, nella setta buitista presso la quale sono stato iniziato - Ndea Narizanga, costituitasi solamente nel 1957 - il rito dell'ibama è stato eliminato, per cui non ho avuto la possibilità di sperimentare di persona i dolori e gli effetti di questo collirio (Samorini 1996). Non è chiaro quanto questo collirio ricopra un ruolo negli effetti psicoattivi vissuti durante il rito iniziatico, oltre a indurre comprensive allucinazioni visive causate dall'infiammazione del bulbo oculare. Abbiamo scarse notizie circa la sua costituzione e parrebbe che anche questa abbia subìto una trasformazione e che possa differire a seconda delle sette buitiste e delle etnie che ne fanno uso.

Ciò che appare certo è che esso è costituito da liquidi vegetali o, più raramente, animali. Mary (1983: 238-9) riporta il succo della radice di nsinegue, o della corteccia di miane, o ancora il liquido estratto da un grosso millepiedi rosso. Raponda-Walker & Sillans (1962: 52) riportano una ricetta più complessa, totalmente vegetale: succo di Amorphophallus maculatus N.E. Br. (Araceae), succo di Aframomum sanguineum K. Schum. (Zingiberaceae), linfa di Euphorbia hermentiana Lem. (Euphorbiaceae), raschiatura di corteccia di Mimosa pigra L. (Leguminosae), semi di Buccholzia macrophylla Pax. (Capparidaceae). Si fa bollire il tutto e quindi si decanta.

Nonostante il Buiti sia un culto sincretico con il Cristianesimo e abbia "solamente " poco più di un secolo di vita, non v'è dubbio che elementi del rito quali il consumo dell'enteogeno iboga e l'applicazione del collirio ibama facciano parte del retaggio tradizonale e che siano di date ben più antica. La pratica del collirio rituale potrebbe essere retaggio del vecchio culto degli antenati, il Bieri, all'interno del quale veniva e in alcuni casi viene tuttora utilizzata una differente pianta psicoattiva, l'alan (plurale melan), Alchornea floribunda Müll-Arg. (Euphorbiaceae, cf. De Smet 1996). James Fernandez riportava che, quando gli effetti di questa pianta tardavano a farsi percepire, veniva applicato negli occhi dell'iniziando un collirio costituito dal lattice irritante dell'euforbiacea Elaeophorbia drupifera Stapf., chiamata dai Fang ayañ beyem: "Questo lattice parrebbe agire sui nervi ottici, producendo bizzarri stati visivi e una generale sensazione di stordimento. Si dice che questo lattice veniva una volta applicato sugli occhi degli schiavi e dei prigionieri per confondere la loro vista, per stordirli e per ammansirli" (Fernandez 1972: 242-3). Secondo S. Galley (1964, cit. in Swiderski 1981: 395-6), è proprio il decotto della pianta alan (qui identificata erroneamente con la leguminosa Hylodendron gabunense Taub.) a essere utilizzato in alcuni casi come collirio, oltre che ingerito, con lo scopo di "addormentare" il neofita.

E' già stato fatto notare come gli originali conoscitori degli effetti dell'iboga siano i Pigmei della foresta equatoriale e anche presso questi ritroviamo il rito dell'applicazione del collirio. Presso il gruppo Gyeli dei Pigmei del Camerun, nel corso delle cerimonie notturne tenute in onore ai morti (mi-n'kuta), gli stregoni applicano ai presenti un collirio ottenuto dalle foglie di piante non meglio identificate "per aumentare l'acutezza visiva" (Tastevin 1935). Presso gruppi pigmei della Repubblica Centroafricana, per aumentare l'acutezza visiva di un cacciatore si fanno cadere sui suoi occhi alcune gocce di succo ottenuto pressando il frutto di Vitex congolensis De Wild. & Th. Dur. (Verbenaceae): "fa male, punge, ma dopo si vede meglio" (Motte 1980: 224-6).

Ritroviamo l'impiego di un collirio internamente a un rito magico-terapeutico di una setta della chiesa harrista dell Costa d'Avorio. Per alcuni tipi di malattie, i preti harristi raccolgono alcune foglie di una graminacea, le schiacciano e ne applicano il succo in ciascun occhio del paziente. Queste inoculazioni provocano un bruciore passeggero. Il paziente resta inebetito per un breve periodo di tempo, dopo di che si rialza apparentemente guarito (Rouch 1963: 174).

Quali effetti inducono questi colliri sulla mente? La risposta rimane incerta e non è mia intenzione cimentarmi in forzate congetture partendo dai pochi dati qui esposti. Tutt'al più, questi dati fanno insorgere un'altra domanda: una droga oralmente psicoattiva può indurre i medesimi effetti se introdotta per via oculare, a mo' di collirio? La risposta, che da tempo cerco, rimane incerta, tranne in un caso, in cui è affermativa. Si tratta del caso degli alcaloidi tropanici, presenti nelle solanacee allucinogene (datura, belladonna, mandragora, ecc.).

Nel corso delle mie indagini bibliografiche incentrate sugli studi medici del secolo scorso, ho trovato il resoconto di un'intossicazione accidentale con duboisina (un vecchio nome della iosciamina) introdotta per via oculare. Nel 1887, in Inghilterra, a un uomo di 75 anni, sofferente per cataratta senile, furono applicati sugli occhi, per scopo diagnostico, due dischi contenenti duboisina: "Pochi istanti dopo il paziente cominciò a lagnarsi di lieve vertigine, si fece inquieto e fu costretto a sedersi. A capo di circa venti minuti le pupille erano dilatate sufficientemente da permettere l'esame necessario. Alcuni minuti più tardi ebbe senso di debolezza spiccata, gran secchezza di bocca con fortissimo sapore amaro. Avendo il paziente voluto recarsi a casa, lungo la strada non fece che barcollare e sragionare quale ubbriaco. Giunto a casa, non gli fu possibile di reggersi in piedi e di riconoscere la posizione degli oggetti, il che era dovuto certamente a paralisi di accomodazione e ad allucinazione visuale. Messo in letto, rimase in preda a movimenti incessanti: gettava sguardi sospettosi al di sotto delle lenzuola e dietro di sé, il tutto accompagnato da un torrente di parole e di giudizi sconnessi: sembravagli trovarsi immerso nella più fitta tenebra, quantunque fosse una delle più splendide giornate di estate" (Martini 1887: 366).

Dunque, gli alcaloidi tropanici possono indurre effetti psicoattivi quando introdotti negli occhi. Potrebbe ciò essere vero anche per altri tipi di alcaloidi, ad esempio quelli indolici (psilocibina, LSD, DMT, ecc.)?

Tornando ai rapporti etnografici, ricordo ancora che fra alcune tribù della Guyana (Sud America) era comune la pratica di strofinare la secrezione di certi rospi sopra tagli fatti sulla pelle, o eventualmente di introdurla negli occhi, per acutizzare la vista durante la caccia (Furst 1972).

Volgendo lo sguardo alla mitologia dell'antica Grecia, viene alla mente il racconto del Vello d'Oro, descritto da Apollonio Rodio nelle sue Argonautiche. Nel passo IV: 156-7 è descritto come la maga Medea, per addormentare il drago che stava a guardia del vello, gli spruzzò negli occhi gocce soporifere a base di ginepro.

Anche Proclo sembra avere conosciuto la pratica di spalmare sugli occhi droghe per ottenere visioni e Psello considerava questa una pratica egizia (Dodds 1978: 363 e nota 4).

Per rimanere e per concludere in Egitto, in un papiro del III secolo d.C. è descritto un rituale mitraico in cui un'enigmatica erba kentritide ricopre un valore sacramentale: "Se vuoi mostrare (queste cose) ad un altro, spalma gli occhi di chi vuoi (ammaestrare) con il succo dell'erba kentritide insieme con quello di rose e (egli) vedrà chiaramente, così da meravigliarti" (Cepollaro 1982: 40).

Ricordando il caso dell'uomo inglese "ubriacatosi" in seguito all'applicazione del collirio a base di iosciamina, sorge il dubbio che diverse fra queste operazioni magiche e rituali siano e siano state caratterizzate da implicazioni di natura psicofarmacologica.

Bibliografia

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