Zanzara tigre: in Trentino un laboratorio davanguardia
È partita dal Sudest asiatico, ha percorso chilometri per mare arrivando all’Africa e al Medio Oriente, fino ad approdare nelle Americhe, da una parte, e dall’altra in Oceania. Alla fine degli anni Settanta è sbarcata in Europa attraverso l’Albania settentrionale, mentre in Italia approdava, attraverso il commercio di pneumatici, direttamente dal Nordamerica. Se non si trattasse della cronaca di una infestazione globale dalle conseguenze gravose per la salute e per l’ambiente, potrebbe suonare perfino l’epica di una migrazione strepitosa.
Dello stato di avanzamento della diffusione della zanzara tigre in Trentino e delle strategie poste in atto a livello territoriale per monitorarne – e arginarne - la presenza, parliamo con Fabiana Zandonai, ricercatrice del laboratorio di Geofisica, Stampa 3D e Microscopia della Fondazione Museo Civico di Rovereto, fra i soggetti che per primi, anni orsono, hanno inteso la gravità del fenomeno e hanno avviato campagne di prevenzione e di intervento d’intesa con l’amministrazione comunale.
Dott. ssa Zandonai, facciamo un passo indietro. Perché un progetto destinato proprio a questa specie?
Perché Aedes Albopticus è un insetto particolarmente tenace, aggressivo e pericoloso. Il nome volgare gli deriva dalle striature bianche e nere di zampe e addome, ma presso l’opinione pubblica restituisce in maniera vivace il senso della virulenza dell’insetto. Il Gruppo di studio sulle specie invasive dell’Unione Internazionale per la Conservazione della Natura ha inserito la zanzara tigre tra le cento specie invasive più dannose al mondo: sebbene sia indigena delle zone tropicali e subtropicali, ha straordinarie capacità di adattamento, per cui è stata in grado di insediarsi anche laddove il cima è anche molto rigido, superando l’inverno attraverso uova diapausanti. Resiste ai veleni, si riproduce facilmente e velocemente depositando le uova in qualsiasi piccolo ristagno d’acqua: un sottovaso, una lattina abbandonata, i vasi dei cimiteri. Molto hanno pesato, nella sua rapida diffusione, i tombini delle nostre città. Sul piano delle conseguenze, la zanzara tigre non è soltanto un insetto molto fastidioso, ma è anche nocivo sotto il profilo sanitario: è in grado di trasmettere diversi virus – compreso il virus Zika di cui negli utlimi mesi si parla molto anche in Italia - e agenti patogeni, oltre che vermi parassiti. Poco meno di dieci anni fa, Aedes albopictus fu all’origine della diffusione di un’epidemia di Chikungunya nella provincia di Ravenna.
Come si distingue dalle altre specie?
Come detto, ha un aspetto caratteristico. Ha striature bianche su fondo nero, con una linea bianca marcata anche sul capo, ed è piccola: misura generalmente tra i 4 e i 5 millimetri. Riposa di notte ed è attiva prevalentemente nelle ore diurne, le sue punture sono particolarmente dolorose e i morsi ripetuti, poiché una sola puntura non esaurisce il fabbisogno di sangue della femmina, necessario alla produzione delle uova. L’adulto vive circa un mese e in questo arco di tempo la femmina può deporre le uova più volte e in numero di centinaia.
Come e quando è arrivata in Trentino?
La storia della sua diffusione somiglia a quelle di tante altre specie infestanti. La zanzara tigre può coprire, in volo, brevi distanze, nell’ordine delle decine di metri. Il suo raggio di azione raggiunge, considerando un mese di attività, grossomodo i 300 m. Ma ha potuto percorrere milioni di chilometri e spostarsi, dal Sudest asiatico dove è indigena, in tutti gli altri contenti, a bordo di trasporti internazionali - soprattutto navi cargo – al seguito delle merci sulle quali aveva nidificato, in particolare copertoni. In alcuni paesi d’Europa è arrivata invece attraverso il commercio florovivaistico. Porti e scali marittimi sono stati i punti nodali delle rotte dell’infestazione, che ha poi penetrato l’entroterra: in Italia, ad esempio, si ritiene che Aedes albopticus sia approdata in prima battuta a Genova. In Vallagarina arrivò al principio degli anni Novanta in uno stabilimento della zona industriale di Rovereto. Fu allora che ci mobilitammo. A tutt’oggi uno dei mezzi di diffusione della zanzara tigre è il traffico veicolare, laddove soprattutto il livello di infestazione è alta.
In che modo vi attivaste?
Attraverso il Museo Civico, il comune di Rovereto nel 1997 avviò quella che sarebbe stata la prima campagna di monitoraggio dell’evoluzione dell’infestazione. Sul territorio furono sistemati decine di contenitori in cui si fece ristagnare appositamente dell’acqua, affinché le zanzare fossero indotte a depositarvi le proprie uova, esattamente come avrebbero fatto altrove. L’esame settimanale di queste ovitrappole, e in particolare del supporto in legno che vi è inserito e che è idoneo alla deposizione delle uova, consentì di mappare la presenza e la distribuzione del fenomeno. Da allora, il progetto ha assunto dimensioni più corpose, coinvolgendo nuovi territori e altre istituzioni e assicurandosi una sempre più larga adesione da parte della popolazione.
Qual è dunque l’assetto odierno?
La Fondazione Museo Civico di Rovereto è capofila di un progetto che si avvale della collaborazione con la Provincia autonoma di Trento, e in particolare del Servizio per il sostegno occupazionale e la valorizzazione ambientale, e con dieci amministrazioni comunali (erano sette nel 2015): Ala, Aldeno, Avio, Besenello, Calliano, Isera, Mori, Rovereto, Villa Lagarina e Volano. Ogni Comune affida la manutenzione settimanale delle astine a un gruppo di giovani: sono loro a cambiare l’acqua alle ovitrappole, a prelevare il supporto in legno, sostituendolo, per consegnarlo ai ricercatori della Fondazione che verificheranno al microscopio l’eventuale presenza di uova. Se l’esame è positivo la zona viene ritenuta infestata: il dato è trasferito nei database del museo insieme al numero di uova accertate in ciascuna ovitrappola. Sulla base dei dati riscontrati, i Comuni attivano verifiche sul territorio, oltre a sensibilizzare la popolazione affinché collabori all’attività di contenimento. Inoltre, il Servizio provinciale cura, attraverso il suo personale, i trattamenti antilarvali su tombini e caditoie pubblici. Nelle aree in cui l’infestazione appare più significativa e molesta si può interviene con trattamenti aerei specifici rivolti ai soggetti adulti, ma l’azione più importante rimane quella preventiva. La campagna 2016 ha preso avvio con il 26 aprile all’insegna delle quattro parole chiave: Osserva, Segnala, Previeni, Intervieni.
Perché, al di là dell’attività istituzionale di monitoraggio e di intervento, è essenziale che anche il privato si faccia parte attiva del progetto…
Non ci stancheremo mai di ripeterlo. Per quanto intorno a questo tema si stia costituendo una vera e propria task force a livello provinciale, l’azione non sarà mai in grado di mantenere l’infestazione sotto i livelli di sopportabilità se si esaurirà nel solo intervento pubblico, perché dove la proprietà è privata è il cittadino a doversi fare carico dell’emergenza.
Per questo, da sempre, sensibilizziamo le famiglie affinché, in primo luogo, evitino di creare le condizioni ideali per la proliferazione della zanzara: dunque, in buona sostanza, affinché non lascino contenitori pieni d’acqua nei giardini, nei cortili, nei campi, sui balconi e in casa. La zanzara tigre infatti non disdegna di colonizzare anche l’ambiente indoor, dove trova anche le condizioni più favorevoli anche per superare l’inverno. Il tema viene affrontato nel corso di appuntamenti specifici organizzati nei vari territori comunali; alla popolazione è destinato un apposito vademecum e un sito web dedicato, costantemente aggiornato sull’evoluzione del fenomeno anche grazie allo sviluppo di un webgis. In via preventiva, il privato è invitato inoltre a occuparsi dei trattamenti antilarvali per le raccolte di acqua stagnante della sua proprietà (come ad esempio i tombini) e della protezione con zanzariere di eventuali bidoni non coperti usati per raccogliere l’acqua piovana. Si chiede ai cittadini di svuotare sul terreno almeno una volta a settimana sottovasi, vasi e piccoli contenitori per l’acqua (come gli annaffiatoi) presenti in casa e in giardino; di inserire pesci rossi nelle vasche ornamentali; di fare attenzione alla cura delle tombe dei propri cari, e in particolare ai vasi, che vanno riempiti di sabbia e fiori finti qualora non vi sia la possibilità di cambiare l’acqua frequentemente. Nella stessa ottica, al cittadino si chiede anche di collaborare all’attività di monitoraggio: affinché chiunque possa garantire il proprio contributo senza un eccessivo dispendio di tempo e di energia, la Fondazione ha messo da qualche tempo a disposizione un kit per il monitoraggio e una innovativa App. Grazie all’applicazione, il privato può trasferire i dati raccolti condividendo le istantanee del supporto in legno prelevato dall’ovitrappola di casa, oppure segnalare eventuali focolai.
Quali gli altri progetti in via di sviluppo?
D’intesa con le comunità della Vallagarina e dell’Alto Garda, stiamo lavorando al fianco di un gruppo di realtà locali anche di carattere produttivo, come la trentina Trilogis, allo sviluppo di una piattaforma web che consenta di rendere fruibile, in modo semplice e in tempo quasi reale, il dato di monitoraggio a enti pubblici e a privati, anche sotto forma di viste e carte tematiche atte a riprodurre la dinamica dell’infestazione non solo nello spazio ma anche nel tempo. Si mira inoltre a sviluppare, sulla base dei dati raccolti in tutti questi anni, modelli matematici che - tenendo conto delle condizioni climatiche, dei fattori geografici e di quelli antropici - ci consentano di fare previsioni anche a breve termine su geografia e tempistiche dell’infestazione, per potere operare trattamenti mirati. Siamo stati infine invitati a partecipare - con la Fondazione Edmund Mach e col MUSE - al tavolo aperto dall’Assessorato provinciale alla Salute e alle Politiche sociali.