Vita, costumi e cosmogonie delle culture Meso e Sudamericane prima di Colombo, raccontati da circa 200 opere darte
Arriva a Rovereto, dopo il successo di Firenze, la grande mostra che ci fa conoscere “Il mondo che non c’era”.
Tra la fine del XV e gli albori del XVI secolo l’Europa viene scossa da una scoperta epocale: le “Indie”, “Il mondo che non c’era”. Un evento che scardina la visione culturale del tradizionale asse Roma - Grecia – Oriente; l’incontro di un nuovo continente; l’evento forse più importante nella storia dell’umanità secondo l’antropologo Claude Lévi-Strauss.
Dopo il grande successo ottenuto a Firenze al Museo Archeologico Nazionale giunge alla Fondazione Museo Civico di Rovereto nelle eleganti sale di Palazzo Alberti Poja, dal 1 ottobre 2016 al 6 gennaio 2017, “Il mondo che non c’era” straordinaria esposizione dedicata alle tante e diverse civiltà precolombiane che avevano prosperato per migliaia di anni in quella terra. Un corpus di capolavori - esposti al pubblico in gran parte per la prima volta grazie a questo progetto - espressione delle grandi civiltà della cosiddetta Mesoamerica (gran parte del Messico, Guatemala, Belize, una parte dell’Honduras e del Salvador) e il territorio di Panama. Dagli Olmechi ai Maya, dagli Aztechi ai Coclé. La mostra racconta le Ande (Colombia, Ecuador, Perù e Bolivia, fino a Cile e Argentina), dalla cultura Chavin, a Tiahuanaco e Moche, fino agli Inca. Fu il grande esploratore Amerigo Vespucci a comprendere per primo che le terre incontrate da Cristoforo Colombo nel 1492 non erano isole indiane al largo del Cipango (Giappone) e neppure le ricercate porte dell’Eden, ma un “Mundus Novus”, un nuovo continente che pochi anni dopo alcuni geografi che lavoravano a Saint-Denis des Voges vollero chiamare, in suo onore, “America”. Mentre tra i primi a considerare vere opere d’arte quegli oggetti che giungevano dalle terre lontane fu Albrecht Dürer che, di fronte ai regali di Montezuma a Cortes, giunti a Bruxelles nel 1520, scrisse: “Queste cose son più belle che delle meraviglie […] Nella mia vita non ho mai visto cose che mi riempissero di gioia come questi oggetti”.
Promossa dalla Fondazione Giancarlo Ligabue di Venezia con il sostegno della Provincia Autonoma di Trento, del Comune di Rovereto, dalla Fondazione Museo Civico di Rovereto e di Mezcala Expertises, main sponsor Ligabue Group, la mostra presenta un nucleo scelto di opere delle antiche culture Americane della vasta Collezione Ligabue. A quasi due anni dalla sua scomparsa, questa esposizione vuole essere infatti anche un omaggio alla figura di Giancarlo Ligabue (1931- 2015) - paleontologo, studioso di archeologia e antropologia, esploratore, imprenditore illuminato, appassionato collezionista - da parte del figlio Inti che, con la “Fondazione Giancarlo Ligabue” da lui creata, continua l’impegno nell’attività culturale, nella ricerca scientifica e nella divulgazione, dopo l’esperienza del Centro Studi e Ricerche fondato oltre 40 anni fa dal padre Giancarlo. Oltre infatti ad aver organizzato più di 130 spedizioni in tutti i continenti, partecipando personalmente agli scavi e alle esplorazioni - con ritrovamenti memorabili conservati ora nelle collezioni museali dei diversi paesi - Giancarlo Ligabue ha dato vita negli anni a un’importante collezione d’oggetti d’arte, provenienti da moltissime culture. Una parte di questa collezione è il cuore della mostra che giungerà a Rovereto e che ha già affascinato il pubblico toscano e la stampa nazionale, curata da Jacques Blazy (tra i membri del comitato scientifico, André Delpuech capo conservatore al Musée du quai Branly di Parigi e l’archeologo peruviano Federico Kauffmann Doig), specialista delle arti pre- ispaniche della Mesoamerica e dell’America del Sud. Un’esposizione straordinaria che, ospitata in uno dei musei italiani più interessanti nel campo della ricerca archeologica e naturalistica, consentirà di scoprire attraverso quasi 200 opere d’arte le società, i miti, le divinità, i giochi, le scritture, le capacità tecniche e artistiche di quei popoli. Tra i tanti manufatti di cui in Italia si hanno pochissimi esempi, maschere in pietra di Teotihucan, la più grande città della Mesoamerica, e un nucleo di vasi Maya d’epoca classica, preziosissime fonti d’informazione - con le loro decorazioni e iscrizioni - sulla civiltà e sulla scrittura Maya.
Il viaggio, affascinante, nel cuore delle civiltà Mesoamericane prenderà dunque il via dalle testimonianze delle cultura Tlalica e Olmeca (dal 1200 al 400 circa a.C.), con esempi di quelle figurine antropomorfe di ceramica cava provenienti da necropoli - per lo più rappresentazioni femminili, con un evidente deformazione cranica, elaborate acconciature e il corpo appena abbozzato - che tanto affascinarono anche i pittori Diego Rivera, la moglie Frida Kahlo e diversi artisti surrealisti. La cultura Olmeca si diffuse attraverso tutta la Mesoamerica fino alla Costa Rica, compresa la regione di Guerrero (Xochipala) famosa per le statuine di donne nude, giocatori della palla, coppie o danzatori dai corpi modellati e realistici e, in genere, per la produzione lapidea (tra il 500 a.C. e il 500 d.C.), che si svilupperà anche nella cosiddetta scultura Mezcala. Una manifestazione artistica tanto enigmatica nella sua semplicità quanto misteriosa nelle origini, al punto che ne restarono profondamente suggestionati anche André Breton, Paul Eluard e lo scultore Henry Moore, artisti che diventarono anche collezionisti di quelle figure di pietra.
Tra il 300 a.C e il 250 d.C. l’Occidente del Messico si distinse per la realizzazione di tombe a pozzo collocate sotto le abitazioni. Il viatico funebre di queste tombe – formato da ceramiche a forma di granchio, cane, armadillo, rospo - è eccezionale e offre importanti informazioni sulla vita quotidiana e la religione. Tra le varie culture associate a questa regione, quella di Chupicuaro (il cui apogeo si situa tra il 400 e il 100 a.C.) è conosciuta per le statuette policrome di ceramica cava, delle quali sono in mostra alcuni notevoli esemplari, come la Grande Venere con la mani congiunte sul ventre, la testa deformata e gli occhi aperti a mandorla appartenuta alla collezione Guy Joussemet e ora in quella Ligabue. Quindi Teotihuacan: il primo vero centro urbano del Messico centrale, letteralmente “la città dove si fanno gli dei” e dove furono costruiti monumenti emblematici come la Piramide del Sole, quella della Luna e la Piramide del Serpente piumato. Leggendaria l’abilità dei tagliatori di pietra di Teotihuacan; l’arte lapidea appare molto stilizzata, persino geometrizzata e ha prodotto pezzi monumentali ma anche le famose ed inconsuete maschere di Teotihuacan, concepite secondo un modello standardizzato, con il volto a forma di un triangolo rovesciato, fronte e naso larghi, labbra spesse e sopracciglia marcate. Della cultura Zapoteca - che si diffonde nel Centro del Messico nella regione di Oaxaca dal 500 a.C. al 700 d.C. e vede il suo centro nella città di Monte Albàn - sono in mostra alcune delle famose urne cinerarie che appaiono dal 200 a.C. al 200 d.C. (II fase). Con la loro effige spesso antropomorfa, rappresentante un personaggio seduto con le gambe incrociate e le mani sulle ginocchia – probabilmente Cocijo, dio zapoteco della pioggia, del fulmine e del tuono - sono state trovate in differenti inumazioni; e resta da chiarire ancora la loro funzione. Singolari anche le statuette realistiche in ceramica della cultura classica della Costa del Golfo (o cultura di Veracruz) decorate con bitume dopo la cottura, come anche le repliche in pietra di accessori del gioco cerimoniale della palla e le statue che rappresentano personaggi sorridenti o ridenti, davvero eccezionali nell’arte mesoamericana che frequentemente propone esseri impersonali e inespressivi. A introdurci nella cultura e nelle società dei Maya sono i sacerdoti, le divinità, gli animali addomesticati come i tacchini, i nobili riccamente adornati negli abiti e con bellissimi gioielli (spettacolare la collana di giada esposta) raffigurati in piatti, sculture o stele. Ma sono soprattutto i bellissimi e preziosi vasi Maya d’epoca classica, riccamente decorati, che forniscono informazioni sulla società e sulla scrittura di questa civiltà. Le divinità dell’inframondo, i giocatori della palla, i signori-cervidi e signori-avvoltoi, il drago celeste, il dio K’awiil o i giovani signori dai copricapi piumati sono i protagonisti che popolano il vasellame in mostra.
Sono Azteche invece due sculture in pietra provenienti dal Messico una delle quali raffigurante Chicomecoatl (Sette Serpenti), la dea del mais, con il suo copricapo denominato amacalli o “casa di carta”, formato da un’armatura di canne ricoperta di carta e di corda e inquadrata da rosette di carta. Il viaggio continua con le testimonianze dal Sud America: dalla spettacolare produzione delle prime ceramiche delle Veneri ecuadoriane di Valdivia, agli oggetti degli Inca; dal mondo dell’antico Chavin o dai tessuti e vasi della regione di Nazca, all’affascinante cultura Moche. Ma sarà l’oro – come quello dei Tairona (puro o in una lega con rame chiamata “tumbaga”) – a spingere nelle Ande spagnoli ed avventurieri alla ricerca dell’ “El Dorado”, uno dei grandi miti, vero motore della Conquista. L’America, che aveva stupito e affascinato con i suoi “strani” indigeni, la natura così diversa e le sue meravigliose opere, in breve viene considerata solo per le tonnellate d’oro e d’argento che giungono sui galeoni in Europa. In pochi decenni dall’arrivo di Colombo (nessuno degli oggetti da lui riportati si è conservato) le culture degli Aztechi e degli Inca saranno annichilite con le armi e con la schiavitù e quella dei Taino praticamente annientata: già verso il 1530, secondo gli storici, non esisteva più un solo Taino vivente. Milioni di indio moriranno anche a causa delle malattie arrivate dal Vecchio Mondo. Dovranno passare almeno quattro secoli, prima che l’Europa prenda nuovamente coscienza della grandezza dell’arte dell’America antica e ancora oggi sfuggono molti aspetti delle culture precolombiane, di quella parte di umanità che, all’improvviso, nell’ottobre del 1492, comparve all’orizzonte dei navigatori in cerca delle Indie.
Ufficio stampa Villaggio Globale International